Francesco Messina e la Pietà Rondanini

Francesco Messina e la Pietà Rondanini

Si è appena concluso l’appuntamento con MuseoCity: una settimana speciale, dal 2 al 7 marzo, che ha visto oltre novanta musei al centro di incontri, mostre ed eventi – giocoforza in digitale – accomunati dal tema I Musei curano la città.

Per l’itinerario di Museo Segreto, lo Studio Museo Francesco Messina ha proposto – declinata in una serie di post sui social – una riflessione attorno al tema-guida della manifestazione dal titolo Uno scultore che cura, una scultura che conforta: Francesco Messina, San Sisto e il calco della Rondanini che ha visto, appunto, protagonisti Francesco Messina, la sede dello Studio Museo e a un calco della Pietà Rondanini di proprietà dell’artista.

San Sisto al Carrobbio: da chiesa a museo
Lo Studio Museo ha sede nella chiesa sconsacrata di San Sisto che sorge in una traversa della centralissima via Torino, nel cuore della Milano romana. 

La tradizione vuole che l’edificio sia stato fondato all’epoca del re longobardo Desiderio, nel IX secolo, ma l’attuale aspetto è da attribuire a un progetto di inizio Seicento, probabilmente patrocinato dall’arcivescovo Federico Borromeo. Grazie a questo intervento la chiesa assume un aspetto armonioso, ad aula unica biabsidata con cappelle laterali e con facciata a doppio ordine. 

Nel corso della sua lunga storia, San Sisto subisce una serie di danni dovuti a vicende travagliate, non ultimo il bombardamento del 1943 dell’intera abside, poi sostituita dal finestrone che ancora oggi si apre sulla parete di fondo.

Alla fine degli anni Sessanta, Francesco Messina, ormai prossimo alla pensione dall’Accademia di Brera è alla ricerca di uno spazio che possa ospitare il suo nuovo studio. 
La scelta cade proprio su questa chiesa sconsacrata – e molto ammalorata – che, grazie all’intervento dello scultore di origine siciliana, è curata e salvata dalla rovina e dalla demolizione. 
Il colossale restauro della chiesa – a esclusivo carico dell’artista e condotto dall’architetto Tito Varisco – e la successiva trasformazione in studio-museo restituiscono, infatti, alla città uno spazio rinnovato e aperto alla collettività.

Francesco Messina e la Pietà Rondanini

Il calco della Pietà Rondanini

Nella chiesa di San Sisto, ormai trasformata in studio-museo, “viveva” un calco della Pietà Rondanini – oggi ai Musei Vaticani – comprato da Messina a Firenze negli anni Trenta. 
Il calco diventa per Messina un compagno durante il lavoro, presenza confortante e occasione di meditazione, come lui stesso racconta in una puntata del programma RAI di Anna Zanoli "Io e…" del 1973.

«Quest'opera è però a me talmente cara che, una quarantina di anni fa, trovandomi a Firenze, scovai un calco di una perfezione stupenda e lo acquistai. Vive con me, nello studio, lo vedo tutti i giorni. Si può dire che è un glorioso buon giorno che mi dà Michelangelo. Lo conosco così bene che, se mi mancasse, questo calco, sarebbe per me come la mancanza di una persona cara. Io lavoro qua, alla presenza di questo capolavoro di Michelangelo e, devo confessare, che ci vuole una certa spudorataggine a starci di fronte con delle opere mie, ma ormai è una compagnia che mi conforta da parecchi anni.»

Note d'arte sulla Rondanini

Il rapporto con la Pietà Rondanini – testamento artistico e spirituale di Michelangelo Buonarroti, estremo capolavoro cui l’artista ultraottantenne lavora incessantemente, in un continuo rovello, fino alla morte, avvenuta a Roma il 18 febbraio 1564 – è talmente profondo e sentito da guadagnarsi uno spazio nelle Note d’arte che Francesco Messina inserisce in coda alla sua autobiografia Poveri Giorni, pubblicata nel 1974.

Queste pagine dedicate alla Rondanini sono in realtà scritte nel 1952, cioè nell’anno in cui il marmo entra – anche grazie alla generosità di una sottoscrizione popolare – nelle collezioni civiche milanesi. 

La scultura, dalla straordinaria modernità e molto amata nel Novecento, nel 1956 è inserita nel percorso dei Musei d’Arte Antica del Castello Sforzesco – riallestiti dopo la Seconda guerra mondiale dallo studio BBPR – e allestita nella Sala degli Scarlioni, isolata dalle sculture lombarde da una nicchia in pietra serena. 
Dal 2015 la Pietà è esposta nel museo a lei dedicato nell’antico Ospedale Spagnolo, affacciato sulla piazza d’armi del Castello.

Francesco Messina
La Pietà Rondanini
(1952)

Delle opere di Michelangelo, la Pietà Rondanini è la più commovente, la più palpitante. Si può dire che il gran vecchio, ridotto a un fascio di muscoli e nervi, ma ardente di fede, le sia spirato addosso. Iniziatala, secondo il Vasari, all’età di ottantun anni, quando Michelangiolo, stanco e amareggiato per affronti subiti, si sente prossimo alla fine, così da scrivere al Vasari stesso che «non nasce in me pensiero che non vi sia dentro scolpita la morte», nella nuova opera egli sopprime la materialità delle forme che non hanno più senso se non nella sublimazione del soggetto raffigurato.

Giovinetto, Michelangiolo dà avvio alla sua visione statuaria con un concetto di forme gloriose di cui si compiace fino alla maturità, con apporto tanto ardito da sbalordire. Ma il processo, in cui l’ansia del suo genio non s’appaga, si arresta, oltre che con i due Prigioni del Louvre e con altre opere della giovinezza, col Mosè. D’allora in poi si può dire che Michelangiolo non finisca più un’opera di marmo. Che egli fosse spirito tormentatissimo tutti sanno, e che le controversie per la tomba di Giulio II abbiano inciso sulla sua scontrosa natura, sono fatti accessibili a tutte le immaginazioni.

Ma dobbiamo proprio pensare che per tutte le opere rimaste incompiute si debba incolpare quella mancanza di tempo col quale si trovava in lotta continua? Perché non accettare l’evidenza che, aspirando la sua natura drammaticamente a una scultura sempre più espressiva, sentì l’insufficienza dei suoi mezzi nel competere con la natura che gli aveva fatto dono della più alta tensione?

Spirito tormentatissimo, dunque, con una concezione dantesca dell’universo, egli non si appagherà mai più del limite raggiunto. Le contingenze della sua vita, quella che egli soleva chiamare «la tragedia della sepoltura», non hanno più senso, non solo per i Prigioni ma anche per le statue delle Tombe Medicee e per le tre Pietà: la Palestrina, quella di Santa Maria del Fiore, concepita per la sua tomba, e la Rondanini. Opere che nessuno gli aveva ordinate e su cui non pesava ingerenza alcuna.

Inquietudine e ricerca, ma non consapevolezza della sua impotenza. Egli sapeva benissimo sino a qual punto doveva consumare poeticamente la propria immagine. Su questo argomento, che chiameremo gusto di modernità, esistono esempi anteriori, di Giovanni Pisano e di Donatello, artisti, si può dire, dello stesso sangue. Con la figura del Crepuscolo nella tomba di Lorenzo de’ Medici, sentiamo già che Michelangiolo lotta, incerto, con se stesso e lascia la questione del non finito a mezza strada. Ma per l’altra figura del Giorno nella tomba di Giuliano nessun dubbio può consistere circa la decisa volontà di non andare oltre, conscio del risultato ottenuto, poiché andare oltre poteva costituire il pericolo di opacizzare l’espressione raggiunta con folgorata immediatezza.

Questo diabolico gusto è concesso soltanto a chi sa consumare e vincere una materia di cui possiede la confidenza e i segreti. E solo Michelangiolo, nell’era moderna, poteva concedersi tanta spavalda accortezza, poiché egli era solito aggredire, non scolpire in marmo, violento com’era nell’operare. Il dialogo tra l’artista e l’immagine raffigurata è in questa statua assai significativo. Dalla schiena possente, con l’impeto di chi ratto si volga verso la luce che lo colpisce, appare strappata al sonno la maschia espressione del volto, aggredito di subbia sapientissima e immacolato dalle compiacenze dello scalpello. Tutto il corpo, si badi, è condotto fin quasi alla levigatura e in talune parti persino alla lucidatura. Come spiegare questo strano modo di procedere nel dar vita al fantasma della propria mente se non attraverso una cosciente e meditata trasposizione di contrasti per giungere soltanto all’essenziale?

Michelangiolo è l’ultimo genio della Rinascenza italiana e il primo grande moderno, il primo che porti il gusto in chiave di poesia. Da lui ha inizio la marcia trionfale del romanticismo. E potremo fare la storia di ogni sua scultura ormai tarata da quest’ansia.
Abbracciata fortemente la fede cristiana nella vecchiaia, egli rinnega quanto di platonico aveva in sé, e si dà a scolpire, anima e corpo, gruppi di Pietà. L’amore divino lo raggiunge e l’inchioda alla croce. Sant’Agostino gli suggerisce la stupenda immagine finale del sonetto LXVI:

«Né pinger né scolpir fia più che quieti
l’anima volta a quell’Amore divino, 
ch’aperse a prender noi in croce le braccia»,

la quale doveva in seguito suggerire al Bernini l’ispirazione del colonnato di S. Pietro in forma di braccia.

Ultimo tra i suoi fantasmi di fede fu, dunque, il gruppo della Pietà Rondanini.
Otto anni di appassionato ma lento lavoro, otto anni di celesti commozioni, otto anni di pianto amaro e gioioso. Egli ormai dorme con la morte e quindi non la teme più. Qualche scatto ancora si sente, nelle ultime lettere, ma lo spirito vive ormai nella luce della fede, conscio che la vita consumata sulla terra altro non è che gioco di fronte alla vita eterna che l’attende. Egli conferma, con le tre Pietà, ciò che sembra aver dichiarato nei Dialoghi di Francisco de Hollanda, e cioè che per fare dell’arte sacra occorre prima di tutto essere un fedele cristiano; si trasumana nell’opera di marmo serbando solo il dubbio estetico che lo turba fino alla consumazione della propria mente e della propria vita.

Probabilmente da un pezzo di colonna romana nacque la Pietà Rondanini, opera sofferta e conturbate. Fu condotta a una finitura quasi di levigatezza, con una linea press’a poco ad angolo retto nel profilo delle due figure formanti gruppo, ma l’ombra creata dai due corpi inclinati dovette in definitiva analisi, apparire a Michelangiolo eccessiva.
Quindi egli mosse alla ricerca di una più pacata composizione chiaroscurale, facendo arretrare, per ben due volte, il torso del Cristo, in un primo tempo troppo inclinato. Infatti, dietro la testa di Gesù, come la vediamo oggi, scolpita quasi a bassorilievo, si scorge ancora una parte levigata che apparteneva alla nuca della prima fase dell’indietreggiamento. Michelangiolo riduce il torso del Cristo e, placatosi nel giusto equilibrio dei piani, dà risalto ed emotività alle lunghe gambe sublimi, serbate intatte dalla primitiva fattura. Ma, si domandano molti, perché quel braccio finito che forma una composizione così singolare? Perché non lo fece asportare?

Questo è il punto sul quale Michelangiolo gioca il tutto per tutto e quasi se stesso.
La patetica bellezza delle gambe di Cristo risalta quasi aggressiva per l’incompiutezza della parte superiore, dove, raggiunto lo scopo con l’abbozzo, Michelangiolo quasi si perde per esaurimento di materia, giacché la nuova composizione gli impone espedienti non risolvibili. Al di sopra e alla sinistra delle gambe vive dunque, isolato, come pianta potata, questo braccio che ormai non ha ragione di esistere nel concetto della nuova espressione. Ma perché dunque non toglierlo?

Michelangiolo, poeta quanto tecnico, è ben consapevole che eliminando questo intruso e vagante elemento, la sua composizione ne risulterebbe deserta di quei labirinti chiaroscurali creati dal braccio con la sua fastidiosa presenza. Esso è parte indispensabile di questa strana e occasionale composizione. Guai se non ci fosse. Le due figure comporrebbero una «esse» di gusto discutibile e quindi il tono drammatico, derivante dall’espressione-forma e contenuto, sarebbe assai diverso per non dire compromesso.

Michelangiolo è morto sopra questa Pietà che fu il suo ultimo canto. Un canto tragico e quasi confuso per quanto riguarda l’umano operare, ma un sublime canto di fede, un’animata preghiera a Dio. Egli chiude la sua vita in stato quasi fallimentare. A un uomo comune è certo più facile presentarsi a Dio con le carte in regola.

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